Non so fino a che punto la pittura di Gianmaria Bonanomi, in arte Bonà, sia classificabile nei termini dell’Espressionismo Astratto così come è stato detto. Se lo è, non lo è certo in un’accezione strettamente storica, legata alla cosiddetta Scuola di New York e a tutto quello, anche di molto diverso fra una manifestazione e l’altra, che ha ruotato attorno ad essa. Ma non avrebbe troppo importanza. Ciò che mi sembrerebbe più significativo rivelare è l’autonomia e l’individualità del percorso espressivo intrapreso da Bonà, come se ciò che di artistico lo ha interessato sia stato poi rielaborato in maniera così personale da rendere poco produttivo lo sforzo del critico filologo che volesse rinvenire la prevalenza in lui di un’influenza artistica esterna. Dietro Bonà, insomma, potrebbe esserci tutto e niente, non sarebbe comunque sufficiente a giustificare la sostanza di esiti artistici che vengono conseguiti avendo avuto come punto di parenza una figurazione piuttosto tradizionale, sulla quale si è poi innestata un’opera di progressiva distillazione che non ha abolito il dato naturale, ma lo ha sublimato fino a fali assumere caratteristiche di fisicità ultranaturale piuttosto che di pura astrattezza, non verificabili nel nostro modo tangibile, ma del tutto plausibili in una dimensione dell’universo che fosse prevalentemente immaginaria, e in quanto tale lirica. Analogamente Bonà non annulla, ma altera la nozione più abituale del metallo quando afferma la terza dimensione scultorea, conferendogli la plasmabilità dell’argilla a cui associa però un’idea diversa della materia, più resistente, durevole. E natura altra, piuttosto che altro dalla natura.
Roma, 10 ottobre 2021
