Sessantanove acquerelli intimi
Continuiamo pure a chiamarlo disegno ad acquerello o acquarello, ma “disegniamo dipingendo”: voglio dire che la caratteristica principale di un acquerello è di riuscire ad ottenere il disegno della forma, i toni del volume e della luce attraverso la “macchia” e non più attraverso la linea. Forse, fra le tante tecniche a colori, questa è la più difficile. Proprio perché tra i colori ad acqua e gli altri materiali pittorici coprenti esiste una differenza fondamentale: la trasparenza. Il pittore che usa i colori a olio può dipingere un colore opaco su un altro e modificare e correggere, sempre “coprendo” anche con il bianco. Nell’acquerello tutto questo non è possibile: il colore è dato diluito con l’acqua, sulla carta, e il bianco della carta è il massimo chiaro. I toni di colore possono essere messi sulla carta così come escono dal tubetto, o mescolati sulla tavolozza, in parte diluiti; ma senza pentimenti, senza correzioni. L’acquerello esige prontezza, decisione, immediatezza e quindi freschezza e trasparenza.
Perché il disegno sia realmente un “acquerello”, occorre operare in modo che il risultato sia tutto affidato alle tinte dell’acquerello, alla loro trasparenza, ai bianchi della carta, alle macchie e alle pennellate. E questa tecnica Gianmaria Bonà la conosce bene, facendola divenire l’origine e presupposto delle sue ultime opere. L‘interesse costante in questi ultimi anni per la cultura dell’acquerello, l’ha portato alla riscoperta di molte possibilità rimaste nell‘ombra, della quale aveva già indagato a fondo il movimento modernista astratto. Bonà è stato un innovatore tempestivo nel settore della ricerca in questa tecnica. C‘è però da osservare che non tutto è stato detto; e questa mostra, che presenta opere di Gianmaria Bonà, in un ambiente dove di lui si è visto pochissimo, può costituire uno spunto per mettere a fuoco alcuni problemi concernenti specificatamente l‘artista, nella sua integrità. Trattandosi di una scelta piuttosto ampia, dato il carattere dell‘esposizione dei lavori, che seguono il lungo arco produttivo nei campi in cui si esprime più continuativamente e felicemente, l‘approccio complessivo è facilitato, ed è aiutato anche dai dati e da chiavi di lettura non scontati, offerti dal saggio introduttivo e dalle illustrazioni.
Ma è possibile vedere Bonà sotto un’ottica unitaria, se proprio i settori stessi in cui opera sono diversi e vi sono differenze di stile anche in lavori dello stesso momento?
E come si accorda questa scissione con il principio dell‘unità delle arti, sotto la cui ala protettrice si pone la rinascita dell’arte stessa?
Molte contraddizioni sono il frutto del momento realmente accaduto, si dice, ma sono più apparenti che reali, esistendo dei fattori fondamentali unificanti. Vediamo di individuarli. Alla svolta degli anni Ottanta quando il nome di Bonà, doveva essere di là da venire, era conosciuto come Bonanomi, per la ricerca svolta in vari campi che vanno: dal design, all’architettura, alla ceramica artistica. Il pittore e acquerellista, rimanevano in secondo piano ma era evidente, sin da quegli anni, che cercava uno spazio, essendo attentissimo a stimoli nuovi, che poteva insegnargli e suggerirgli l’amico pittore Felice Bossone, o da altri artisti alla moda dell’area milanese.
L’autoritratto all’aperto del 1988 rimane un documento dell’immagine rappresentativa che egli offre di sé: il pittore davanti alla tela bianca, pervaso dall’ansia creativa. L‘artista è chiamato ora a svolgere un ruolo incredibilmente più ampio. Il suo campo di azione si allarga oltre il quadro e l‘impronta dell‘arte segna tutto l’ambiente che lo circonda, dal design all’oggettistica.
E se ci si chiede qual è il movente, si sbaglierebbe a parlare di socialità e di abolizione delle gerarchie tra arte pura e arte applicata. Semmai si può ammettere un’incidenza maggiore dell’arte nella vita, poiché quadri e oggetti, sono chiamati a vivere in ambienti composti alla maniera di abitazioni di amateurs. Ma sostanzialmente quel che conta è l’accresciuto potere dell’artista. Anche dovendo ammettere che Bonà, meno di altri artisti della sua cerchia, sente l‘affinità tra pittura, poesia e filosofia e, che il contenuto stesso della sua opera, ce lo conferma la critica d’arte attenta che se n’è accorta, dedicandogli articoli di apprezzamento. Ed è innegabile che certe concezioni di vita abbiano segnato la sua formazione, specificamente nel modo di essere artista non unidimensionale, di là delle apparenti differenze di stile. La doppia veste di pittore e acquerellista sembra andargli a pennello. Come pittore condivide gli interessi di altri artisti di punta, i quali non sentono più il realismo che è esaurito e ritornano a esplorare la vita interiore. La pura natura che «parla di sé», i temi simbolici sono al centro dell’interesse; il linguaggio ruota attorno al colore puro diviso, al segno e alla macchia, alla sintesi e all’abbreviazione formale, con lo scopo della massima espressività. La presenza di soggetti simbolici e allegorici non va trascurata nell’arte di Bonà, caratterizzata dal gesto libero, come simboleggiato in “Elisir”; “Secondo”; “Fragranza”; “Autoritratto all’aperto” ultima versione; “Nel profondo”; “Le spine nel cuore”; “A – come idea”; tutti eseguiti recentemente in una singolare tendenza a dar forma a certi suoi fantasmi e visioni che egli insegue da lungo tempo, compiendo opere di grande originalità. I più guarderanno con riserva a queste pitture, vedendo in esse una pericolosa infiltrazione di spirito “nordico” estraneo all‘anima latina. Influenza che certamente va ricondotta agli stranieri: Eduard Hildebrandt, Carl Larsson, Paul Klee, molto spesso associati a giovani artisti italiani per la loro arte visionaria, onirica, antitetica a ogni forma di naturalismo sia che si orienti verso forme di primitivismo o di espressionismo. Quest’aspetto «visionario» della personalità di Gianmaria Bonà sembrerebbe concordare i simboli di una fioritura nuova d‘arte e d’idee, che si distinguono anche nello stile. Indubbiamente le capacità realizzative fanno di Bonà, l‘artista più adatto a rispondere alle richieste d’immagini che fossero trasfigurazione ideale della vita e prefigurazione di un nuovo concepimento dell’arte italiana. Ma egli è anche sensibile alle ombre di questa ideologia attiva; artista poliedrico non solo nel senso operativo, ma anche secondo i concetti di arte e di artista che si formulano nell’area lombarda. L’arte esce «dall’orto solitario» dell‘estetismo chiuso in se stesso, si pone come medium di modificazione della meschina realtà che si rifiuta; l‘arte è «aristocratica» nel senso che la forma deve essere esattamente quella che il contenuto richiede.
L’artista è assolutamente individuale, ha diritto a esprimersi al di fuori delle regole e delle convenzioni; concepisce e compie l’opera con un iter non differente da quello del poeta, mezzi e tecniche non sono che strumenti per la creazione artistica, che è trasformazione di una realtà di per sé pluralistica. Il potere dell’artista è accresciuto dalla possibilità d’intervento in un campo molto più ampio senza nulla perdere delle prerogative individuali: «noi adoriamo l‘universalità del genio» scriveva Borgese (Ut pictura poesis).
L’attivismo, alimentato dalla fede nella possibilità di intervenire sulla realtà, aiuta l’artista a uscire dal cerchio dell’isolamento, ma lo porta a dovere fare i conti con la richiesta di messaggi espliciti unidirezionali. La pittura va, però, assumendo un aspetto preminente, per Bonà, come per altri artisti della sua generazione, il quadro, tende ora, sempre più a diventare il luogo di espressione dell’io intimo, spesso memorie e appunti da viaggi, il segno forte a volte traspare nelle forme che s’immergono all’interno del pensiero sentimentale come gesto, con la gestualità dell’amore.
E’ la pittura invece a lasciare emergere le ombre di questa idea pragmatica e moraleggiante del fare artistico, le incertezze di una generazione che avverte la crisi del pensiero ideologico e non crede più in un ordine razionale del mondo. Si sente chiamata a un’attitudine attiva, ma avverte di essere sola e di dovere fare i conti con forze oscure che sovrastano l’uomo. In tempi in cui non è facile mantenere una posizione caratterizzata, se si pensa che, al di fuori della pattuglia di punta dei turisti, il panorama artistico è amorfo e i tentativi innovativi sono all‘insegna del ripetitivo, Bonà, riesce a essere in primo piano, e a porsi perfettamente nell‘ area della modernità misurata. Sviluppando le suggestioni, oserei dire addirittura esotiche nei termini attuali di esasperazione del colore e di semplificazione del dato naturale. In più adotta impaginazioni Kleeiane nei paesaggi e restituisce una versione corretta di essi. Si deve riconoscere che forse per la prima volta, accantonato l‘eccesso di ornamentazione, gli spazi vuoti sensibilizzano l’armonia complessiva dei colori accesi, testimoniando che nulla è andato perso, che il tempo l’ha portato alla conquista di un’audacia maggiore nell’abbreviare e sintetizzare l’invisibile. Acquerelli che documentano l’abbandono dell’estetismo vedutista – ed entrano di prepotenza nell’intimità – in cui riprende quella particolarissima tecnica a macchie a filamenti, che oserei definire abbandoni musicali iridati: di bianco, con accordi cromatici rosa, carmini, verdi, azzurri, velati e sfumati con violetti e ocre. Una vibrazione continua di piccoli barbagli multicolori, che avvicina a esempi di passato nomelliniani. Questa evoluzione stilistica di Gianmaria Bonà è una precisa virata di stilizzazione e di gusto, verso esperienze sperimentali, come del resto era prevedibile. Forse la più smodata, dove l’esperienza dei paesaggi è da considerarsi definitivamente chiusa, ora la tecnica dell’acquerello è condotta nell’interiorità e investita a mostrare astratte ragioni. Strutture a macchie, percorse «tagliate» e scandite da coordinate verticali e orizzontali, come terrazzamenti mentali in un coerente libero gesto spaziale. Ecco in quest’ottica, la scelta coraggiosa e radicale inserisce l’opera ad acquerello di Bonà, nel contesto culturale attuale, asportando retaggi della cultura passata. E c’è un elemento interessante, cui si è già accennato e che questa mostra permette di cogliere nella scelta le migliori opere recenti.
Desidero finire questo mio breve excursus sull’opera di Gianmaria Bonà, incoraggiandolo a continuare con l’audacia che lo contraddistingue e perseverare nella ricerca iniziata. A tal proposito volevo ricordargli che anche il Vincent van Gogh, arrivò al punto di volere sperimentare l’uso dell’acquerello. Nella lettera qui riportata scritta al fratello Théo, sull’argomento dichiarava: «…Ho comprato i Traité d’aquarelle di Caesagne e lo sto studiando; anche se non dovessi dedicarmi allcquarello ci troverò certo molte cose utili, ad esempio sull’uso della seppia e dell’inchiostro. Finora ho disegnato esclusivamente a matita, sottolineando ed accentuando con la penna, talvolta con una penna di canna che ha il tratto più largo. I soggetti eseguiti esigevano questo metodo, poiché richiedevano molto disegno, e anche disegno di prospettiva, come ad esempio, le botteghe del villaggio, la fucina, la bottega del falegname e del calzolaio. Mauve mi ha ora insegnato a dipingere all’acquerello e questa nuova attività mi prende tutto. Tento e ritento, cerco di trovare una strada. Perché bisogna fare degli enormi sforzi. Poiché l’esecuzione di un acquerello ha qualcosa di diabolico. Poiché c’è qualcosa di buono in ogni movimento d’energia…»